Arfio era molto fiero della sua città.
Usciva tutte le mattine alle 7.30 con la sua Panda per andare a lavorare a Fiumicino.
Quel muro infernale di macchine non lo innervosiva. I clacson, i motorini che sembravano entrare da un finestrino e uscire dall’altro, le bestemmie dei fattorini inferociti.
Superato San Giovanni poteva aprire finalmente il finestrino senza rischiare di rimanere soffocato dallo smog.
Faceva lo slalom fra le voragini della Colombo e sapeva che un giorno tutto questo sarebbe finito.
Sapeva che un amministrazione onesta e capace avrebbe riportato l’ordine, migliorato il servizio pubblico, incentivato vetture elettriche che avrebbero abbattuto l’inquinamento, azzerato il traffico.
Arfio sapeva tante cose anche se non leggeva i giornali.
Non aveva sentito parlare di quel convegno di ingegneri all’Università.
D’altronde non credeva né alla stampa né ai professoroni.
Così imboccò l’ingresso all’autostrada senza segnarsi.
Impilato fra un tir e un autobus, il traffico iniziò a scorrere come al solito dopo l’uscita del raccordo.
Un boato pauroso, la Panda in corsa si schiantò nel cratere.
L’airbag di fattura serba non si aprì e Arfio si ritrovò sottosopra trafitto dalle lamiere e dai vetri esplosi.
Esalò dissanguato dopo una lunga agonia, Arfio che sapeva tante cose, ma non che sarebbe morto nel tragico crollo del viadotto della Magliana.